Ovunque si sente parlare della crisi, quella economico-finanziaria, la meno importante. Ce ne sono molte altre, come ben descrive il filosofo Michel Serres nel suo lucido pamphlet Tempo di crisi: «In alcuni decenni si sono trasformati radicalmente il rapporto con il mondo e con la natura, i corpi, la loro sofferenza, l’ambiente, la mobilità degli umani e delle cose, la speranza di vita, la decisione di far nascere e, talvolta, di morire, la demografia mondiale, l’habitat nello spazio, la natura del legame nelle collettività, il sapere e la potenza. Cosa avviene quando avvengono trasformazioni così decisive?».
Tanti, troppi inediti e rapidi cambiamenti stanno evolvendo e interagiscono tra loro. Me li figuro come gocce d’olio sulla superficie interna di un imbuto. Noi siamo sul fon-do. Tutte stanno colando, convergendo inevitabilmente verso il basso, qualcuna più rapida, qualcuna più lenta.
Quando una goccia più grossa e veloce ne intercetta altre più piccole si ingrandisce e accelera. Prima o poi ci arriveranno tutte addosso.
Siamo emersi in Africa dagli scimpanzé circa cinque o sei milioni di anni fa. Ci siamo evoluti in Homo sapiens circa duecentomila anni fa. Per millenni e millenni siamo stati dominati dall’ambiente e dai suoi limiti: una lunga stagione di caccia e raccolta, poi – negli ultimi ottomila anni – i frutti agricoli ora abbondanti ora scarsi per via di anomalie climatiche o parassiti, la ridotta possibilità di estrarre minerali e procurarsi energia dall’acqua, dal vento, dal legno con fatica, la scarsa capacità di contrastare malattie e ferite, ci rendevano esseri profondamente vincolati al mondo fisico, poco coscienti del funzionamento dei fenomeni naturali e piuttosto avvezzi al fatalismo. Ciò non ha impedito la nascita del linguaggio cinquantamila anni fa, e lo sviluppo della civiltà con espressioni altissime del pensiero, dell’ingegno e dell’arte.
Con l’invenzione della macchina a vapore, nel giro di un paio di secoli di rivoluzione termoindustriale l’uomo ha completamente mutato il proprio approccio con la natura: la potenza ottenibile dal tesoretto di energia fossile attinta da un remoto passato geologico lo ha improvvisamente «promosso» da schiavo a dominatore incontrastato dell’ambiente terrestre.
Con il petrolio abbiamo migliorato la qualità della nostra vita e fatto cose meravigliose, che sintetizzerei con l’invio delle sonde spaziali su altri pianeti.
Ma abbiamo anche subìto quasi un’ubriacatura, una tossicodipendenza da velocità e gigantismo, al punto che con l’inizio del XXI secolo le forze messe in campo da sette miliardi di individui rivaleggiano con quelle dei cicli biogeochimici planetari. Muoviamo più suolo, divoriamo più vegetali e animali, bruciamo, seghiamo, costruiamo più di quanto facciano l’erosione, le frane, le eruzioni e tutto il complesso della vita sulla Terra.
Di fronte all’ipotesi assolutamente probabile di mettere in crisi le condizioni di sopravvivenza dell’uomo sulla Terra occorre dunque mobilitare l’intero corpus di conoscenza maturato dalla civiltà.
È probabilmente la più grande avventura con cui siamo chiamati a confrontarci dall’inizio della nostra presenza terrestre: come vivere a lungo, noi e le altre specie viventi, su un pianeta dalle risorse limitate, senza comprometterne il rinnovamento e mirando a una «buona vita».